La filosofia e la teologia di Michael Faraday

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Michael Faraday è stato uno dei più grandi fisici della storia. Ancora oggi portano il suo nome le Leggi di Faraday, la gabbia di Faraday, l’effetto Faraday e l’unità di misura detta farad

Nato nel 1791 in un sobborgo di Londra, in una famiglia oriunda irlandese, povera e molto religiosa, egli appartiene per tutta la vita, sempre con grande entusiasmo, a una setta protestante cristiana, la chiesa sandemaniana, che interpreta letteralmente la Bibbia (ci sono rimasti gli appunti di alcuni suoi sermoni).

Faraday è un uomo di fede, in tutti i sensi. Un uomo fiducioso, curioso, mentalmente vivace. I suoi studi da ragazzo sono molto carenti, e di mestiere fa l’apprendista legatore artigianale: prende le pagine da una stampatrice, le cuce, le ordina, le rilega. Eppure, appena può, corre a sentire lezioni pubbliche di fisica, o a leggere tutto ciò che può sugli argomenti scientifici di cui si discute ai suoi tempi.

Un giorno ascolta una lezione sulle scoperte del medico italiano e terziario francescano Luigi Galvani, riguardanti l’elettricità animale. Quasi «animato dalle scosse di Galvani» comincia a studiare i fenomeni dell’elettricità e del magnetismo. Lo fa spinto, ricordano tutti i biografi, da una fortissima fede: la natura è come un libro intellegibile e bello, scritto dal Creatore del mondo; un libro che l’intelligenza dell’uomo, vertice della creazione, può leggere e scoprire. La natura, inoltre, deve essere fondamentalmente semplice e unitaria.

La figura di Faraday riporta dunque, ancora una volta, alle radici filosofiche e teologiche della scienza. Del resto egli è membro, in vita, della Cambridge Philosophical Society, mentre gli sarà dedicato, dopo la morte, sempre a Cambridge, il Faraday Institute for Science and Religion.

Ha scritto l’astrofisico Amedeo Balbi: «Faraday si era da tempo convinto che dietro la molteplicità dei fenomeni naturali dovesse esserci una fondamentale unità. L’idea gli derivava da personali convinzioni filosofiche (era un uomo profondamente religioso), ma il vero banco di prova delle ipotesi, come sempre, doveva essere il confronto con i fatti concreti»6.

Come hanno insegnato la teologia dei Padri e la filosofia scolastica medievale, infatti, Dio lo si trova anche nella concretezza delle sue opere.

La natura, afferma Farday, è scritta «dal dito di Dio», e «svelare i misteri della natura equivale a scoprire le manifestazioni di Dio»7. E come ha insegnato Galilei, è importante capire non come Dio avrebbe potuto ordinare il mondo, ma come effettivamente lo ha ordinato.

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L’idea di fondo, la necessità di ridurre la molteplicità dei fenomeni a unità, altro non è che l’antica reductio ad unum dei filosofi greci prima e cristiani poi.

Un’idea connessa anche con la concezione monoteista, per la quale la molteplicità delle realtà che si trovano nell’universo deriva da un’unica Mente, un unico Autore, un unico Dio creatore, autore del disegno intelligente e unitario dell’universo.

Come è definito dalla teologia classica cristiana, Dio? Come l’essere semplice, non composto, unitario in sé stesso.

Al punto che filosofi e teologi medievali come il beato scozzese Duns Scoto, o il frate francescano inglese Guglielmo da Occam, avevano già proposto l’idea che anche nella natura fosse da rintracciare, scavando, questa unità semplice di Dio. Aveva scritto, infatti, Scoto, che «pluralitas non est ponenda sine necessitate», mentre per Occam «non sunt moltiplicanda entia sine necessitate; frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora» (rasoio di Occam).

In epoca successiva Niccolò Copernico aveva sostenuto la superiorità del sistema eliocentrico su quello tolemaico, proprio perché più semplice, più armonioso, più unitario, e quindi anche esteticamente più bello di quello tolemaico.

Faraday è dunque convinto, come ripeterà più volte, citandolo espressamente, che vada seguito l’insegnamento di san Paolo, per il quale «dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili [di Dio] possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere [visibili, ndr] da Lui compiute» (Rm 1, 20)8, e nel contempo crede che una relazione diretta, un’unità più profonda, tra magnetismo ed elettricità possa essere scoperta e dimostrata.

Se questa è la fede che lo muove, incredibile è anche la pazienza, la precisione, l’acutezza degli esperimenti che lo portano a dare contributi importanti nella chimica (scoperta di benzene, iso-butene…) e alla fisica (teoria del vortice magnetico, creazione del primo motore elettrico, dimostrazione che non solo l’elettricità produce magnetismo, ma il magnetismo elettricità…).

Scrive un biografo: «Faraday aveva visto il mondo con gli occhi di un bambino: ossia, laddove c’era complessità, lui aveva scorto la semplicità. Insieme a Ørsted, aveva dimostrato come l’elettricità potesse generare magnetismo e il magnetismo, a sua volta, potesse generare elettricità: un rapporto genetico talmente incestuoso e circolare da non aver nessun altro riscontro in natura. Sebbene sia l’elettricità sia il magnetismo potessero anche essere considerati forze a sé stanti, di fatto erano inseparabilmente uniti: in presenza dell’una, era presente anche l’altro. Per questo motivo la scienza battezzò le due forze stranamente collegate tra loro con un unico termine ibrido: elettromagnetismo»9.

Quanto all’uomo Faraday, l’influenza del suo pensiero religioso non è rintracciabile soltanto nella sua idea di natura creata, ma anche in tante altre scelte della sua vita: lo sostiene nelle numerose difficoltà della vita; lo spinge a rifiutare il suo ausilio alla produzione di armi chimiche per la guerra in Crimea; lo schiera apertamente contro la credenza diffusa nei tavoli rotanti e contro la passione dilagante per lo spiritismo; lo porta a rifiutare spesso le onorificenze o la presidenza di numerose associazioni scientifiche prestigiose.

Crede fermamente che la vita su questa terra sia, secondo l’insegnamento di san Paolo, come lo scorgere la verità delle cose, ma in enigmate, come in uno specchio10.

Nella sua Bibbia personale Faraday sottolinea con forza un passaggio della lettera di san Paolo a Timoteo (6, 10), «Radice di tutti i mali è l’amore per il denaro», e in più occasioni vuole che sia chiaro a tutti che nonostante la grande notorietà acquisita con le sue scoperte, egli vuole continuare a dedicarsi alla chiesa, all’amata moglie (non ha figli), alla sorella, alle nipoti e al lavoro, per «rimanere semplicemente Michael Faraday fino all’ultimo»11.

Chiara testimonianza del suo spirito umile e devoto, della sua volontà di leggere gli avvenimenti della vita alla luce della fede e della morale cristiana, sono le sue lettere, in cui spesso, appoggiandosi alle Sacre Scritture, racconta di come Dio ha «infranto il suo orgoglio», o di come la lettura delle parabole evangeliche sia per lui continuo motivo di riflessione12.

[…]

Parlando di Faraday, la nipote Margaret Reid, nel 1867, scriverà: «Non posso più guardare il lampo di un fulmine senza ricordare il piacere ch’egli traeva da un bel temporale. Come stesse alla finestra per ore, osservando gli effetti e godendosi la scena; mentre noi sapevamo che la sua mente era colma di alti pensieri, talvolta riguardanti il Creatore, talvolta le leggi attraverso le quali Egli ritiene giusto governare la terra»14.

Tratto dall’introduzione a:

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