L’evoluzione secondo Francisco J. Ayala

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F. Ayala, docente di scienze biologiche e filosofia all’ Università della California è stato definito dal Times “l’uomo della rinascita dell’evoluzione”.

Nel suo L’evoluzione Ayala dedica un capitolo del libro all’ unicità dell’uomo, sostenendo che “gli uomini sono sì animali, ma di un genere del tutto particolare”: “per certi aspetti biologici siamo molto simili alle scimmie, per altri aspetti biologici siamo molto diversi, e in queste differenze sta la base valida per uno sguardo religioso sull’uomo come creatura speciale di Dio, e per una coscienza di che cosa ci renda squisitamente umani”.

A fare la differenza vi sono almeno due caratteristiche peculiari dell’anatomia umana: la stazione eretta e un cervello che “rende possibili i ragionamenti astratti, il linguaggio e la tecnica”.

Alle differenze anatomiche vanno poi aggiunte quelle comportamentali, “oltre la biologia”, tra cui il senso morale: se per Darwin anch’esso sarebbe rintracciabile solo in grado diverso negli animali, per Ayala “agli animali non riconosciamo alcun comportamento morale (o senz’altro non a tutti e in ogni caso non nella stessa misura che per gli uomini)”. Non siamo dunque creature in tutto determinate biologicamente, né il nostro altruismo è solo funzionale alla conservazione della specie, iscritto nei nostri “geni egoisti”, istintivo, puramente utilitaristico, come vorrebbero i darwinisti materialisti e i sociobiologi.

Al contrario “alcune norme (umane, ndr) potrebbero non favorire, anzi ostacolare la sopravvivenza e la riproduzione dell’individuo e dei suoi geni, sopravvivenza e riproduzione che sono gli obiettivi dell’evoluzione biologica”.

Interessantissimo mi sembra, per concludere, questo passaggio: “Niente nella natura del processo evolutivo rappresenta una premessa verosimile per la nascita degli eucarioti. E non c’è nemmeno niente che renda probabile l’evoluzione degli organismi pluricellulari. Ancor meno la comparsa degli animali…Riattivando il nastro della vita le improbabilità si moltiplicano di anno in anno di generazione in generazione, milioni e milioni di volte. Il numero di improbabilità che risulta è di tale portata che, se ci fossero anche milioni di universi grandi come quello che conosciamo, la probabilità per l’uomo rimarrebbe infinitesimale anche dopo aver moltiplicato le improbabilità per il numero dei pianeti possibili. Queste improbabilità non sono da applicarsi solo ad homo sapiens ma anche ad ‘organismi intelligenti con cui è possibile comunicare’… Non ci resta che concludere che gli esseri umani sono soli nell’immenso universo e che saremo sempre soli”.